La barca aveva appena lasciato la costa di Stromboli. Erano le otto di sera di un martedì di fine giugno, e il sole iniziava il suo percorso verso il tramonto. La sua luce era ancora calda, ma un forte vento ne attutiva gli effetti. Gli occhiali da sole quasi non servivano più. La prua della barca puntava verso l'isolotto di Strombolicchio: un monolite di roccia compatto e frastagliato, sormontato da un faro ormai deserto. Su ogni guglia, un gabbiano. E lassù, accanto al faro, uno spuntone di roccia dalla singolare forma di cavalluccio marino.
La barca accompagnava il calar del sole: più calava, più le parole venivano meno. Il vociare allegro e rilassato di qualche minuto prima lasciava ora spazio a un raccoglimento quasi mistico. Lo spettacolo del tramonto offriva inedite sfumature della costa di Stromboli, della sua lunga spiaggia di sabbia nera, dipingeva di giallo ocra le barche ormeggiate e disegnava una lunga striscia verticale sulla superficie dell'acqua, abbagliante e irregolare. Tutti gli occhi puntavano a sinistra. In quel silenzio, interrotto solo dallo sciabordio delle onde e dal motore della barca, il sole si divertiva a giocare con Strombolicchio.
Gli si avvicinava dalla sinistra, scendendo sempre più, e ne faceva risaltare la silhouette scura stagliata sopra un cielo dalle sfumature rosa-bluastre, poi si nascondeva dietro di lui, facendolo sembrare gigantesco e terrificante, infine riappariva alla sua destra, conferendo nuove nuance giallognole al cielo sempre più buio. L'oscurità crescente permetteva di perdersi nel colore blu cobalto del mare circostante l'isolotto, un blu nerastro, profondissimo, senza trasparenze.
La barca giunse fin davanti alla Sciara del Fuoco, il versante di Stromboli solcato dalle colate di lava. Da quel lato, l'isola appariva completamente morta, un gigante spaventoso sfregiato da un canalone attraverso cui la lava, da millenni, si faceva strada verso il mare.
Tutti quanti, in silenzio, ci sistemammo sul lato sinistro della barca, in trepidante attesa.
Parole non ce n'erano più. In sottofondo, il capitano aveva lasciato un po' di musica: Moby, Enya. Perfetta per quel momento.
Di fronte al vulcano, nessuno era più ciò che era. Tutti eravamo IL VULCANO. C'erano bambini, giovani, anziani. Ricchi e meno ricchi. Italiani e stranieri. Lavoratori, disoccupati, studenti. Tutte queste etichette, che giorno dopo giorno ciascuno di noi si porta appresso, erano sparite.
Eravamo noi, la barca, il mare nero, la brezza del tramonto, il vulcano, il cielo.
Una cosa sola, indivisibile, pura essenza che non aveva bisogno della mediazione di alcun linguaggio, di alcuna sovrastruttura.
Attendemmo in questo modo una buona mezzora. Il vulcano pareva addormentato, sembrava volerci lasciare andar via delusi. Nessuno ne era contrariato: ciascuno capiva che non siamo noi a dettare i suoi tempi, noi umani così abituati a scandire, incasellare, piegare alla nostra volontà.
Poi, all'improvviso, un lampo rosso, una colonna di fuoco e cenere alta diversi metri, un boato. Proprio mentre stavamo per andarcene: eccolo.
Quell'attesa carica della più bella tensione che io ricordi si sciolse in un'esclamazione di ammirata sorpresa.
Il cielo era ormai diventato scuro, scuro come l'isola, scuro come il mare.
Cominciavo a sentire freddo ma sapevo di avere appena vissuto il momento più bello della mia vita.